A TU PER TU ROBERTO REGGI / PRESIDENTE FONDAZIONE
● Roberto Reggi, Oliviero Toscani è mancato ieri. Ricorda quello scatto che le fece con il sigaro in bocca...
«Si, anche in quel caso dimostrò la sua maestria. Mi trasformò per un attimo in un boss della malavita! A parte gli scherzi, ci ha lasciato un grande artista che ha fatto della fotografia anche un potentissimo strumento per accrescere e consolidare il rispetto dei diritti umani».
Nei giorni scorsi lei ha sciolto la riserva annunciando la ricandidatura a presidente della Fondazione. Anche considerando i risultati ottenuti, la strada per il bis sembra spianata. È così?
«Beh, non so se ci saranno altri candidati, ma certamente gli ottimi risultati conseguiti da tutto il gruppo che ha condiviso con me questi quattro anni di mandato, ci autorizza ad essere fiduciosi sul rinnovo. La Fondazione è uno straordinario strumento per lo sviluppo sociale, economico e culturale della nostra comunità e noi siamo molto consapevoli del privilegio e della responsabilità che comporta la sua gestione pro tempore. Siamo quindi pronti anche per un secondo mandato».
Sa che è sulla breccia da oltre trent'anni. La inorgoglisce sapere di essere ancora uno degli uomini più potenti di Piacenza?
« Non scherziamo, non lo sono. So di essere al servizio della mia comunità e cerco di fare il meglio possibile, naturalmente aiutato da altri».
Però essere il presidente della Fondazione dà un grande potere...
«Vero, ma è un'azione complementare a tutte quelle degli altri enti».
Qualcuno sostiene che sia ancora lei il sindaco della città.
«Non è vero, Piacenza ha la fortuna di avere una bravissima sindaca».
Meglio fare il sindaco o il presidente della Fondazione?
«Molto meglio fare il presidente della Fondazione. Meno grane da gestire. Nel 90 per cento del tempo si fanno cose molto belle per gli altri e il 10 per cento è la quota di grane. Quando fai il sindaco è il contrario, lasciamo stare».
A 64 anni gioca ancora a calcetto. Ha fatto un patto col diavolo?
«Beh, diciamo che ho tutta una serie di acciacchi che forse non si vedono ma si sentono. Però devo dire che i miei genitori mi hanno lasciato una buona eredità genetica, sono fortunato».
... e fa ancora le ferrate.
«Ho ripreso a farle e devo dire senza nemmeno troppe difficoltà».
Che bambino era Roberto Reggi?
«Molto indisciplinato, sia alle scuole elementari che alle medie. Non mi piaceva studiare e preferivo giocare a calcio. Facevo un po' lo stupidino (sorride, ndr). Poi alle superiori mi è scattato qualcosa dentro e sono diventato tutto il contrario, molto appassionato allo studio. Si figuri che alle medie quando indicavano alle famiglie dove mandare i figli alle superiori (fece l'Itis, ndr) gli avevano suggerito di mandarmi subito a lavorare, al massimo alle professionali. Ecco, forse quella è stata la svolta».
Nella sua camera da letto cosa c'era?
«Intanto avevo una camera condivisa con i miei due fratelli. Non eravamo poveri, ma nemmeno ricchi».
Non aveva poster?
«No, non c'era il posto. Era una camera essenziale. Tenevo tutto sulla scrivania. Avevo il gagliardetto della Fiorentina. Iniziai a tifare viola dopo lo scudetto del 1968 e ho sempre mantenuto quella fede. Poi purtroppo da allora non ha mai più vinto nulla. Amavo il calcio e il basket ma poi ho abbandonato alle superiori per motivi scolastici».
Come è nata, invece, la passione per la politica?
«Casualmente. Facevo volontariato, che la ritengo una forma di politica a contatto con la gente. Quando però mi accorsi che non era abbastanza per cambiare le cose, allora lì cominciai a pensare che era il caso di fare qualcosa di più. Con la coop Eureka, che fondai, provammo a suggerire anche alle istituzioni strategie per migliorare la vita delle persone fragili. Lo feci anche alla Caritas dove ebbi molti buoni maestri, don Giuseppe Venturini in primis, che mi insegnarono a curare anche la comunicazione per fare in modo che diventasse motore di cambiamento. Devo dire che è servito. E quando nel 1994 Giacomo Vaciago venne eletto sindaco e si rivolse alla Caritas per sapere se ci fosse una figura adatta a fare l'assessore al Welfare, la Caritas suggerì me. Entrai in politica così, a 33 anni. Catapultato nella stanza dei bottoni, in un mondo che non conoscevo affatto. Non sapevo nemmeno chi fosse il sindaco».
Ebbe qualche titubanza nell'accettare l'incarico?
« No perché mi appassionai subito alla proposta di Vaciago, supportai la sua campagna elettorale nella lista civica Alleanza per Piacenza».
Ha mai pensato che a 33 anni fosse troppo giovane per entrare in politica? In fondo a quell'età anni si è ancora dei ragazzini.
«Mah, io a 33 anni avevo già due figli e avevo una carriera avanzata all'Enel. Diciamo che mi sentivo già uomo».
C'era qualche timore nell'avere a che fare con persone di grande autorevolezza?
« Beh, Sforza Fogliani era una personalità molto autorevole e dava anche poca confidenza. Era difficile, per così dire, da intercettare. Così anche come Franco Tei, che era il segretario generale del Comune, ispirava una certa titubanza nell'approccio. Con loro mi tremava quasi la voce».
Cosa le ha dato la politica?
«Delle soddisfazioni impagabili che nessuna professione riesce a dare».
Lei è l'unico che ha fatto il sindaco per dieci anni. Come avvenne l'investitura nel 2002?
«Più che per caso, direi per disperazione. Per disperazione di un ambiente che non riusciva a trovare un candidato sindaco che avesse il coraggio di misurarsi con Gianguido Guidotti, il sindaco uscente. Una persona autorevole che si candidava per la seconda volta e che aveva i sondaggi dalla sua. Tutti temevano di perdere. Io invece ero convinto che il centrosinistra avesse molti margini di miglioramento e di riuscire a raccontarli anche in modo un po' brillante. Cosa che poi abbiamo fatto con una campagna elettorale straordinaria».
Ma chi fu a proporre la sua candidatura?
«In realtà fui io a propormi, mi sentivo in grado di farlo. Avvenne in una riunione in Provincia. Alzai quasi la mano e mi misi a disposizione. Devo dire che all'inizio non venne accolta con grande entusiasmo. Fecero un sondaggio con altri e poi tornarono da me che ero l'unico rimasto. Non so se era perché mi temevano o perché non mi ritenevano all'altezza. Questo non l'ho mai capito ».
Ma chi era che decideva all'epoca?
« Beh, i potenti erano Dario Squeri che era il presidente della Provincia, e poi c'erano i segretari di Margherita e dei Ds. Diciamo che avevo una buona reputazione come assessore uscente al Welfare, ma forse non erano del tutto convinti. Avranno pensato: va beh, lo candidiamo, tanto se perdiamo ci mette lui la faccia. In fondo ero giovane, potevo permettermi di perdere».
Cosa si ricorda di quella campagna elettorale?
«Era Davide contro Golia. Partii dagli incontri nei quartieri periferici per arrivare al centro, costruimmo un programma dal basso. Man mano che la campagna andava avanti mi accorgevo di avere intorno entusiasmo. Alla fine ero stremato. Invece al primo turno ero sopra di 100 voti e quello sconvolse un po' tutti. Nel centrodestra non erano preparati a questo svantaggio e pian piano perdevano fiducia».
Nel 2007, invece, si ritrova contro colui che in qualche modo la lanciò, Dario Squeri.
«Ecco, quello fu più spiacevole. Da alleato ad avversario, per di più sostenuto da tutto il centrodestra compatto. Ammetto che fu uno shock.
In cuor mio ero tranquillo di aver fatto bene, ma ovvio che qualche preoccupazione c'era. Anche perché le confido che nella mia coalizione c'era chi pensava che dovessi essere un po' ridimensionato».
Intende che qualcuno si augurava che perdesse?
«Certo. Anche a sinistra ho avuto persone ostili. Pensi che le ho ancora adesso e non capisco perché».
Slogan della campagna elettorale: tutti si ricordano "Reggimi ancora" dello spin doctor Mauro Ferrari.
«Quando Ferrari la tirò fuori, risi mezz'ora. Effettivamente uno slogan riuscitissimo. E poi il colore: l'arancione venne utilizzato la prima volta, poi tanti altri l'hanno copiato. Ferrari indovinò tutto. Fu una bella campagna, dura, ma avvincente. Vinsi credo con il 56%. Considerato che a Piacenza alle Politiche vince sempre il centrodestra, fu un buon risultato».
La chiamano ancora sindaco?
« In tanti. Mi fa piacere, ma perché l'ho fatto per tanti anni. Ci sono bambini che sono cresciuti vedendo me sindaco, una cosa naturale».
Nostalgia di Palazzo Mercanti?
«Assolutamente no, quando vado a trovare Katia Tarasconi, penso di esserci stato anche troppo. La legge del doppio mandato è benedetta».
Ha visto che ora i sindaci guadagna-
no molto di più di quando c'era lei?
«Eh, meglio per loro. Io sono arrivato al momento sbagliato. Nel momento in cui il censimento certificava che eravamo sotto i 100mila abitanti. Quindi prendevo molto meno di quello che guadagnavo col lavoro. Ma le soddisfazioni erano impagabili».
Cosa pensa quando la identificano come il sindaco delle rotatorie?
« Ma in realtà di tanto altro. Anche dell'hospice, delle dieci piazze rifatte, del teleriscaldamento. Ma è vero che molti mi ricordano per quello. Vede, allora il problema principale dei piacentini dai sondaggi fatti era il traffico: avevamo una quantità di semafori irragionevole. Averlo risolto è stato un grande risultato. Realizzammo 55 rotatorie in dieci anni. E ormai il traffico è fluido».
Se le dico Vittorio Sgarbi...
«Ma sa che l'ultima volta mi ha chiamato lui? È successo subito dopo la scomparsa di Corrado Sforza Fogliani. Sgarbi mi telefonò dicendo che Corrado aveva sempre parlato bene di me e non capiva, ma a quel punto voleva crederci anche lui. Strana la vita».
Lei ntrodusse l'abitudine dei ritiri di giunta. Ma servivano davvero?
« Altroché, il team building è una pratica che tutte le grandi aziende adottano. In quei conclave si riusciva a programmare tutto l'anno. Li ricordo tutti con affetto, tranne uno: quello di Rivalta. Sancì il conflitto definitivo tra me e l'assessore di Rifondazione comunista Marco Gelmini ».
Cosa era accaduto?
« All'epoca io facevo una dichiarazione e lui subito dopo ne faceva una contraria. Non ci potevano essere due sindaci. Così un giorno in giunta gli dissi: o tu o io. Ma siccome io ero stato eletto...».
Si ricorda quando nel 2003 puntò la stampella contro un ambulante del mercato?
« Fui un po' impulsivo. Però in quel caso disubbidirono a un'ordinanza, una presa in giro al sindaco. Avevamo il banco del pesce fritto in piazza Cavalli, cosa non molto dignitosa per una città che ambiva ad essere turistica. Così decisi di designare un'area specifica per i banchi del cibo. Loro se ne fregarono. Mi presero in giro. E così quel giorno alzai la stampella. Oggi non lo rifarei più, però nel merito avevo ragione ».
Da sindaco ha qualche rimpianto?
«Sì. Palazzo Uffici. Tema ancora adesso d'attualità visto che un'unica sede sarebbe utile per tanti motivi. Avrebbe avuto un impatto positivo, ma c'erano anche dei contro, quello di sottrarre al centro storico una sede, e non si poteva rinunciare a Palazzo Mercanti.
Nella mia ottica avremmo avuto due poli. E infatti ora ci si scontra sul fatto di avere più sedi con tanta dispersione. Verrebbe quasi da dire: l'avevo detto. L'errore fu quello di insistere, tanto che la mia maggioranza scricchiolò molte volte e ciò pregiudicò anche la realizzazione di altri punti amministrativi».
Quanto conta la Fede nella sua vita?
«Molto anche se non sono un praticante molto assiduo. Ma nelle mie scelte è presente, so chi devo ringraziare e a chi devo chiedere aiuto quando qualcosa non gira. La Fede è un privilegio».
Un giorno corse la maratona. E accusò un malore.
«Ero matto. Avevo 46 anni, non mi allenavo e pure pretendevo di fare un buon tempo. Quella volta non mi fermai nemmeno a bere o mangiare e arrivai al 19esimo chilometro, all'altezza di via Veneto, che svenni. Una signora mi vide che sbandavo e fu provvidenziale: evitò che cadendo sbattessi la faccia sul cemento. L'anno dopo mia moglie corse con me perché non si fidava».
Esistono gli amici in politica?
«Pochissimi, ma qualcuno sì. Posso dire di avere incontrato un grande amico, Graziano Delrio. Nemici? Penso di non averne nemmeno uno, ma avversari sì. Sono quelli che si sono messi in testa che io voglia fare chissà che cosa. Poi è vero, mi capita di avere ruoli importanti, ma non perché abbia intenzione di essere un potente».
Due anni fa è mancato Sforza Fogliani, è ancora vivo il ricordo?
«Sì perché alla fine ci eravamo avvicinati molto. E pensare che all'inizio era il mio più grande oppositore. Poi ci siamo conosciuti e apprezzati, in particolare quando ero al Demanio, ci vedevamo spesso a Roma. Sì, posso dire che siamo diventati amici».
Lei è stato tra i primi sostenitori di Renzi, si è pentito?
«Non di essere stato un suo sostenitore della prima ora. Lui era quello più dotato di noi sindaci. Era quello che poteva portare il metodo di governo dei sindaci a Roma. Cosa che lui ha fatto. Mi sono pentito dopo, quando l'ho conosciuto per alcuni suoi aspetti che non gli consentono di giocare in squadra. Lui sostanzialmente non si fida di nessuno ».
Le è spiaciuto non avere una carriera politica forse più brillante?
«Mah, io ho avuto il privilegio di fare il direttore dell'Agenzia del Demanio che è come fare il sindaco d'Italia. In quella posizione hai un potere enorme, facendo anche cose belle che ancora oggi si stanno realizzando, come i fari costieri».
Parlamentare o ministro: ci ha messo una pietra sopra?
«Non mi sono mai sentito all'altezza di fare il ministro, ne ho visti tanti, ma pochi che lo meritassero davvero. E a fare il parlamentare mi sarei rotto le scatole. Non era un ruolo adatto alle mie caratteristiche».
Si sente ancora vicino al Pd?
«Faccio fatica a riconoscermi nel Pd di oggi. Mi sembra che si occupi di temi solo marginali. Non dico poco importanti, la tutela dei diritti è importante, però concentrarsi solo su quello quando la gente normale vive molti altri problemi vuol dire essere scollegati dalla realtà».
Non è più iscritto?
«No, per scelta, dal 2018. Ero diventato insofferente. Con l'età uno decide di stare con le persone con cui sta bene. Io in una direzione dissi: cari amici, voi sapete che non prenderei volentieri un caffè con molti di voi, e molti di voi non lo prenderebbero con me. Uscii, non mi sentivo più bene in quel gruppo».
E Tommaso Foti ministro?
«Se lo merita. Però mai mi sarei immaginato di vedere Foti come il più moderato di un governo di centrodestra. Ad alcuni amici che mi dicono che è moderato rispondo: dovevate vederlo quando era all'opposizione contro di me... Devo dire che ultimamente ci sentiamo spesso. Penso che si possa fare bene per Piacenza lavorando insieme».
Come sta lavorando la sindaca Tarasconi?
«Molto bene. Ha recuperato una serie di situazioni incancrenite. E poi ha scelto una squadra di persone in gamba».
Qualcuno dice che se ci fossero le elezioni adesso perderebbe a causa di piazza Cittadella. Iniziò tutto da lei...
« No, vincerebbe anche per piazza Cittadella. Chi è a favore è la maggioranza. E poi c'è chi dovrebbe capire che la democrazia si esercita con precise regole».
Come ci si sente da nonni?
«Una meraviglia. Una cosa che ti stravolge la vita. Ti instupidisci, ti basta un sorriso che lo prendi per un gran complimento. Quando so di vedere Amelia ho già la giornata girata dal verso giusto. E il bello del nonno è di godere solo delle cose belle».
Se le dico Patti...
«Penso a mia moglie, un supporto straordinario. Sempre. Abbiamo appena festeggiato i 40 anni di matrimonio ».
Oggi Reggi a cosa non potrebbe rinunciare?
«A Patti, alla mia nipotina, ai miei figli, ad alcuni amici. Quando superi i 60 pensi spesso a quando non ci sarai più. Spero mi assista la salute perché vorrei fare ancora tante cose, in Fondazione e a livello personale».
Chiudiamo col gol realizzato di recente nella nazionale dei sindaci. A chi l'ha dedicato?
« L'ho dedicato ai miei compagni: hanno fatto davvero di tutto per farmi fare gol».
Libertà